Capolavori dell’arte della nostra Italia da Vivere: l’Annunciata di Antonello da Messina

Un volto da ragazzina, dalla carnagione olivastra e dai lineamenti raffinati, di una purezza difficile da riscontrare in altre opere d’arte. Gli occhi neri e profondi, che con uno sguardo leggermente rivolto verso il basso comunicano esitazione, indugio, timidezza, magari anche un po’ di disagio. Il leggio, delineato con una precisione che rimanda alla pittura fiamminga e che non risparmia le tarlature sulla superficie del legno. E poi le mani, affusolate, eleganti: la destra compie un movimento in avanti quasi a volersi schermire, la sinistra cerca invece di chiudere il velo a coprire il collo, catturato in una leggera torsione, e la veste che lascia scoperta una porzione del petto, minuscola ma sufficiente da spingere la protagonista a ritener più conveniente coprirla. Sono questi gli elementi che rendono l’Annunciata di Antonello da Messina una delle opere più seducenti di tutta la storia dell’arte.

È singolare che di un’opera tanto emozionante quanto capitale per l’arte occidentale non si sia saputo alcunché per secoli. La prima citazione risale infatti al 1866, quando il prelato nonché storico dell’arte palermitano Gioacchino Di Marzo scrisse di aver visto a Venezia un’opera uguale all’Annunciata, che allora si trovava nella collezione di un certo monsignor Vincenzo Di Giovanni. L’opera, a sua volta acquistata dalla nobile famiglia palermitana dei Colluzio, era allora ascritta ad Albrecht Dürer. Il dibattito su quale fosse l’esemplare originale, se quello che Di Marzo aveva visto a Venezia, oppure quello palermitano, andò avanti irrisolto fino al 1907: l’anno prima, l’Annunciata era entrata a far parte della raccolta di quello che era all’epoca il Museo Nazionale di Palermo, oggi diventato Galleria Regionale, e veniva esposta per la prima volta nelle sale di Palazzo Abatellis, dove la si può tuttora ammirare.

L’originalità dell’opera di Palazzo Abatellis e l’attribuzione ad Antonello da Messina (Messina, 1430 circa – 1479) vennero confermate da Enrico Brunelli nel 1907, che stabilì la precedenza dell’Annunciata di Palermo rispetto al dipinto di Venezia: “liscia, fredda, monotona è la copia di Venezia, sebbene diligentissima: qui l’esecuzione è di una precisione estrema, di un rigore tutto antonellesco, e il colore è robusto e vigoroso, più vario anche e più ricco che non nell’altro esemplare. Mentre le vesti del quadro veneziano offrono una superficie azzurra uniforme, senza vivezza e senza intensità, qui il rosso della tunica ravviva l’azzurro del mantello: il rosso è un rosso vermiglio, simile al sangue arterioso, l’azzurro volge al verde marino e ha un’intonazione particolarissima che si riscontra talora nel mare siciliano, quando l’azzurro intenso di un cielo sereno del meriggio è rispecchiato e pare si fonda quasi nelle acque tranquille e profonde”. L’opera di Venezia sarebbe stata poi attribuita a un altro pittore siciliano, Antonio di Saliba, peraltro parente di Antonello da Messina.

La Madonna del pittore messinese è solo apparentemente sola. In realtà, Antonello ci lascia nelle condizioni di percepire la presenza dell’arcangelo Gabriele, giunto per annunciarle la nascita di Gesù, proprio dinnanzi a lei: è fuori dalla composizione perché è nella posizione in cui ci troviamo noi che osserviamo il dipinto.

Maria è stata colta alla sprovvista: la mano, protesa in avanti, vuol quasi “bloccare il messaggio dell’angelo con un soprassalto di pudica sorpresa ma anche d’interrogazione”, per utilizzare una felice espressione di Eugenio Battisti. Con quel leggero movimento della mano, sembra che Maria stia dicendo all’angelo di non procedere oltre, perché non era preparata a questo incontro, e allo stesso tempo si domanda che cosa avrà da dirle il messaggero di Dio: Antonello ha il pregio di tradurre in un gesto semplicissimo questo stato d’animo complesso. La pudicizia di cui Battisti parla è rivelata, come anticipato, dall’atto dell’altra mano, che cerca in tutta fretta e nel modo più veloce possibile di celare le sue membra con il velo (o, per usare il termine esatto, il maphorion, il manto che Maria usava per coprire spalle e capo). E nonostante la rapidità dell’azione, la Vergine non si scompone, anzi: l’eleganza rimane inalterata. Certo, c’è anche dell’artificio, perché Antonello sottopone l’intera opera a un evidente quanto severo ordine geometrico: il volto è inscritto in un ovale, il velo forma un triangolo, l’apertura del velo sul volto a sua volta forma un triangolo rovesciato, le pieghe ricadono perpendicolari. Malgrado tutto ciò, è un dipinto pieno di vita, per i motivi sopra descritti: perché siamo nelle fasi iniziali di un incontro, perché si sta per instaurare un dialogo, perché le movenze della Vergine sono molto espressive. E come se non bastasse, c’è anche un sottile alito di vento che scompone le pagine del libro appoggiato sul leggio: segno dell’arrivo dell’arcangelo che muove l’aria attorno a sé.

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