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I monti Sibillini, com'è noto, devono il loro nome alla leggenda di una Sibilla particolare, La Sibilla dell'Appennino, profetessa che diventa maga, fata o diabolica strega e che secondo la leggenda dimora sul monte che prende il suo nome. Di questa leggenda pastori e contadini hanno tramandato la memoria, narrando, ad esempio, la storia secondo cui alla sibilla si dovrebbe l'origine della danza popolare distintiva delle Marche: il Saltarello.
La leggenda vuole che le ancelle della fata-sibilla avessero, in tempi lontani, l'abitudine di uscire dalla reggia nel cuore della montanga per venire di notte a danzare il saltarello coi giovani pastori. Si narra che per spostarsi da un paese all'altro, le fate prendessero in prestito i cavalli, che la mattina venivano trovati affaticati, sudati e con le criniere magicamente intrecciate. Le fate della leggenda sono però creature soprannaturali e il loro aspetto non è quello di giovani donne, o almeno non lo è per intero, poiché i loro piedi sono in realtà zoccoli caprini, che le fate nascondono abilmente agli occhi dei pastori e di cui si servono per risalire agilmente i ripidi sentieri di montagna. Anche la corona del Monte Sibilla sarebbe dovuta ai colpi degli zoccoli delle fate, che dopo una lunga notte di danze coi pastori, avrebbero risalito in fretta il monte per tornare nella dimora della Sibilla.
Questa storia unisce due elementi importanti presenti nella cultura degli abitanti dei sibillini nella seconda metà del XIX secolo: il saltarello e il mito della Sibilla dell'Appennino. Nelle comunità che abitavano l'area dei sibillini, le occasioni per danzare il saltarello erano quelle dei grandi lavori annuali, come ad esempio la mietitura, la trebbiatura, la vendemmia o la raccolta delle olive.
Questi momenti segnavano la fine di un ciclo di lavoro ed erano quindi occasioni festive, ma soprattutto erano occasioni di incontro, dal momento che la grande mole di lavoro andava svolta in breve tempo e richiedeva l'aiuto di numerose famiglie della zona. I contadini dei poderi vicini si assistevano a vicenda lavorando tutti prima in un campo e poi nell'altro e festeggiando poi insieme la fine del lavoro. Erano questi i momenti in cui le regole di comportamento erano più libere, si avevano occasioni conviviali di incontro tra ragazzi e ragazze e si respirava un'aria di festa che cominciava durante il lavoro con i canti e terminava con lunghi balli sull'aia. Si trattava di occasioni in cui venivano “sospese” le normali abitudini, che prevedevano, ad esempio, il controllo severo della rispettabilità delle giovani donne.
Questi balli duravano fino all'alba e vedevano partecipi giovani e anziani con particolare attenzione alla padrona di casa, la “vergara”, che danzava con tutti i presenti. Il nome “saltarello” compare per la prima volta in un documento del XIV secolo (il cosiddetto Manoscritto di Londra, conservato nel British Museum) dove viene utilizzato per indicare un ritmo musicale sostenuto. Nel corso del Medioevo le danze che prevedevano ritmi più movimentati con elementi di pantomima erano quelle popolari, la danza saltata non è infatti presente nei primi manuali di ballo delle corti Italiane del Quattrocento, ma rimane in uso tra il popolo specialmente nelle zone rurali; deriva infatti da antiche danze precristiane legate ai riti per la crescita delle piante. Inizialmente accompagnato da diversi strumenti, dalla metà dell'Ottocento il saltarello si danza sulle note dell' “organetto”, che soppianta tutti gli altri strumenti diventando quello distintivo delle danze popolari e trova proprio nelle Marche, a Castelfidardo, il centro produttivo più importante in Italia. Il Saltarello è presente in molte zone del Centro e Sud Italia, ma la coreografia che si afferma a nel Lazio e nelle Marche è particolare: si danza in coppia e prevede tre fasi principali (lo “spuntapè”, il “giro” e il “filò”), le quali mimano un corteggiamento amoroso tra uomo e donna. Danzare il saltarello è, dunque, vivere un momento di socialità amorosa, un incontro a due che altrimenti sarebbe difficilmente accettato. Rimane il mistero, visto che nell'antichità le sibille non erano però ballerine, ma mitiche profetesse che rivelavano agli uomini la volontà del dio che le ispirava.