I critici dell’arte lo definiscono come “il Caravaggio del ventesimo secolo”. Dagli esordi come pittore figurativo classico alle sperimentazioni geometriche, passando per l’informale e l’arte programmata, fino ad arrivare alle nature morte che lo hanno reso famoso in Italia e in tutto il mondo, il percorso espositivo di 30 opere, molte delle quali esposte al pubblico per la prima volta, indaga la lunga carriera di Luciano Ventrone, che comincia a dipingere giovanissimo, nei primi anni ‘60, assolvendo a una sorta di precoce vocazione. Dagli anni ‘90 del Novecento, soprattutto le nature morte non sono più e soltanto la rappresentazione del reale, uno sforzo mimetico pur degno di lode, ma semmai il tentativo riuscito, grazie a un talento quotidianamente coltivato con fatica, di andare oltre la realtà – come spiega Angelo Crespi – e sperimentare “il limite del vero”, cioè quella sottile linea che ci distanzia dalla conoscenza effettiva, allontanandosi dagli oggetti reali e approssimandosi per quanto possibile all’astrazione delle “cose”. Ventrone – che si definisce un astrattista alle prese con la realtà, un metafsico costretto a misurarsi con la caducità della natura – non è solo uno dei massimi e più conosciuti pittori di fgura a livello internazionale, ma prima di tutto è uno scienziato della pittura e, fn dalle rappresentazioni negli anni ‘60 delle cellule ingrandite al microscopio, opere messe poi a disposizione di testi di neurologia, ha affnato la propria antica tecnica pittorica fatta di pazienti velature a olio, confrontandola con le più avanzate tecnologie che oggi ci permettono di guardare e vedere “più” oltre il reale. Da qui nasce lo stupore, di una pittura che non inganna l’occhio, bensì la mente, e ci costringe a un corto circuito per ridare senso a ciò che nella realtà non esiste, frutta, verdura, fori che non sono mai così perfetti, mai così illuminati, mai così sul punto di essere veri.