Per tutto l’Alto Medioevo il monachesimo occidentale ebbe il monopolio di ogni attività culturale e consolidò una tradizione in cui il libro occupava un posto di primo piano. Nella “Regola” di San Benedetto era prescritto l’obbligo della lettura in vari momenti della vita del convento; il monaco aveva fra le mani il libro nel coro, al refettorio, nella cella, compagno fedele della giornata. Fin dai primi tempi della fondazione delle abbazie era prevista la presenza di una biblioteca. Era scritto: Claustrum sine armario sicut castrum sine armamentario: un monastero senza biblioteca è come una fortezza senza armeria. Collegato alla biblioteca era lo scriptorium, dove si svolgeva il lavoro di copiatura e di miniatura dei manoscritti da parte dei monaci amanuensi: con la loro attività di trascrizione dei codici, furono il più importante strumento di conservazione del patrimonio culturale della classicità. La Regola di san Benedetto può quindi definirsi come l’atto costitutivo di celebri biblioteche, quali quelle di Subiaco, Montecassino, Farfa, Casamari a cui la cultura contemporanea deve gran parte delle sue conoscenze del periodo classico e medievale. Fu proprio a Subiaco che i tipografi Corrado Sweynheym e Arnoldo Pannartz, nella seconda metà del XVI secolo, introdussero in Italia l’arte tipografica. Furono annesse al patrimonio statale, insieme alle Biblioteche dei monumenti nazionali di Badia di Cava, Praglia, Collepardo, Grottaferrata, Montevergine, dei Girolamini di Napoli e di S. Giustina di Padova, dopo la soppressione delle corporazioni religiose conseguente al Regio Decreto del 1866. Durante il Medioevo incendi, saccheggi, o più semplicemente furti si susseguirono decimando il patrimonio librario custodito dai monaci. Perfino Giovanni Boccaccio “dimenticò” di restituire all’abbazia di Montecassino un codice di Tacito e Apuleio, oggi recuperato e conservato nella Laurenziana di Firenze. Fino a non molti anni fa era ancora possibile leggere sopra la porta d’ingresso della biblioteca dell’abbazia di Casamari questa iscrizione: “Avvertenza: per tutti quelli che estraggono o trafugano libri spettanti a questo Ven. Monastero senza licenza dei superiori, v’è la scomunica da incorrersi ipso facto”. Addirittura la peste fu l’indiretta responsabile della perdita di preziosi volumi della biblioteca dell’abbazia di Grottaferrata. A causa dell’epidemia, che infierì nell’estate del 1656, venne dato alle fiamme, per evitare il contagio, il materiale contenuto nelle celle dei monaci morti. Tra le varie suppellettili si ridussero in cenere anche preziosi volumi della biblioteca.