I maestri artigiani del ferro battuto in Italia affondano le radici della loro arte nella notte dei tempi. Non è esagerato affermare che la lavorazione del ferro, prima di tutto per la realizzazione di utensili necessari alla vita di tutti i giorni, è cominciata quasi di pari passo con le origini stesse dell’uomo. Nonostante il ferro sia un elemento assai abbondante in natura, va detti però che la diffusione è stata storicamente lenta e difficile. L’evoluzione dell’uomo è segnata dall’apprendimento dei segreti necessari all’uso di questo metallo. L’età del ferro (1000 a.C.), che seguì quella della pietra, costituì un indubbio ed enorme passo avanti per l’uomo. Anche se strumenti e armi di metallo duro sono noti già da un paio di millenni, la storia del ferro battuto nasce molti secoli dopo, quando gli uomini di allora si accorsero che la massa di ferro fuso doveva venire nuovamente scaldata per venire successivamente forgiata e modellata secondo le varie necessità. La figura del fabbro – circondata anche da un aura magica – divenne ben presto di grande rilievo nella società e nell’organizzazione civile, come dimostrano molti episodi della mitologia ellenica. Al tempo dei romani le necessità della lavorazione del ferro battuto erano legate naturalmente al settore militare: allora i maestri fabbri convertirono l’uso del ferro, passando dalle necessità del mondo civile a quello delle armi. Scrittori come Plinio il Vecchio nei loro testi antichi fanno sapere che addirittura tale era la richiesta di ferro lavorato nelle battaglie, che quest’ultimo era più ricercato dell’argento. E mentre i conventi divennero i veri e propri centri di lavorazione del ferro, si passò con il trascorrere delle epoche all’arte vera e propria, dove gli oggetti in ferro non riguardavano più solo la vita della famiglia, le botteghe di altri artigiani o le armi delle battaglie, ma nasceva l’oggetto in ferro per diletto, come forma di libera espressione del proprio pensiero. Firenze già nel 1200 era la città per tradizione con più maniscalchi. A quell’epoca la maggior parte dei fabbri, dei ferratori o dei “maniscalchi”, come a quel tempo venivano chiamati, produceva utensili a mano e attrezzi vari per l’agricoltura. Quella dei fabbri e della lavorazione del ferro fu addirittura una delle più antiche corporazioni artigiane della città nella quale si riunirono i maestri fabbri per avere maggiore peso e rappresentatività. Essa apparteneva alle “arti medie” e solo in un secondo momento questa corporazione fu affiancata alle “arti maggiori”, come quella della lana, ad esempio, con l’appellativo di “nuova arte maggiore”. In questo periodo di lotte particolarmente intense per vedere riconosciuta una posizione sociale ed economica all’interno della città, la corporazione dei fabbri era rappresentata da 12 rettori, che poi, una volta che la situazione si stabilizzò, divennero solo 6. La corporazione dei fabbri aveva fra l’altro alcuni elementi distintivi rispetto alle altre di quel tempo, i garzoni dei fabbri godevano infatti di una posizione particolarmente privilegiata, con un salario molto buono, prendevano inoltre parte alle decisioni della corporazione.